REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
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ARIANNA PAGLIARA IN UN VOLUME DEDICATO AL REGISTA TEXANO
L’esordio, nel 1973, è con la fuga senza causa, senza meta, di Martin Sheen e Sissy Spacek ne La rabbia giovane; nel ‘98 realizza un film straordinario, capolavoro inarrivabile, La sottile linea rossa, war movie sui generis, indagine profondissima sull’Uomo, sulla Morte. E continua poi a interrogarsi, su quel sentire e sull’esistenza, sulla vita, nei recenti The Tree of Life, Palma d’Oro a Cannes 2011, e To The Wonder, opere per molti versi criptiche, estreme. Terrence Malick, texano, classe 1943, con soli 6 film in 40 anni è uno dei maggiori cineasti viventi, autore filosofo di un cinema «sconfinante» come suggerisce Bruno Torri nella Prefazione al libro di Arianna Pagliara, Il sogno del minotauro. Il cinema di Terrence Malick (Historica Edizioni), da poco pubblicato. Un cinema, «una lingua», scrive l’autrice, «che non è prosa ma poesia».
Come hai incontrato il cinema di Malick e come è nata l’idea di scrivere un libro su un autore così complesso?
«Il primo film di Malick che ho visto è stato La rabbia giovane, quando non avevo ancora iniziato a studiare storia del cinema all’università: sono rimasta colpita fin da subito da quel senso di “limpidezza” (compositiva, figurativa, stilistica) che il film emana; si tratta di un’opera prima che presenta già una chiara, precisa impronta autoriale. La complessità del cinema di Malick – stratificato, denso di contenuti, percorso da echi filosofici e pittorici – ha rappresentato di per sé uno stimolo fecondo per la scrittura del libro. Peraltro non è stato scritto molto in Italia su questo autore, e le precedenti monografie si fermano al suo terzultimo film, non contengono cioè The Tree of Life né il più recente To The Wonder».
6 lungometraggi in 40 anni. Com’è cambiato il cinema di Malick nel corso del tempo e cosa è rimasto?
«A mio parere, più che cambiato il suo cinema è progredito lungo un percorso intuibile fin dal principio e abbastanza lineare, un percorso che si allontana dalla solidità della narrazione tout-court fatta di nessi causa-effetto e procede verso una rappresentazione del reale disgregata, frammentaria, sempre più poetica, interiorizzata, immaginifica. Ciò che è rimasto immutato è, senza dubbio, la preminenza data alla rappresentazione della natura, che connota tutta la filmografia di Malick. Il rapporto tra i protagonisti e lo spazio (e per esteso tra uomo e mondo) è infatti sempre centrale nell’indagine del regista».
Il suo è un cinema radicalmente personale ma anche aperto. Da dove provengono le sue immagini? Come si interrogano sul mondo e come entrano in contatto con altre forme espressive?
«Nei film di Malick c’è, a ben guardare, molta pittura: anzitutto Edward Hopper, l’iperrealismo americano, e se vogliamo anche qualche traccia di Millet e De La Tour (penso alle luci ambrate e ai chiaroscuri de I giorni del cielo). Ci troviamo di fronte a immagini complesse, che non solo abbracciano altre arti figurative (pittura, fotografia), ma si fondono in modo sempre più determinante con la componente musicale (soprattutto negli ultimi due film), e si fanno specchio di un sentire tutto filosofico – interrogativo e mai assertivo – anche attraverso la potente, emozionante rappresentazione della natura che diventa, in The Tree of Life, quasi una celebrazione».
The Tree of Life che con To the Wonder forma un dittico, in un certo senso sono opere inseparabili, un unico film. Cosa c’è dopo? Dove sta andando il suo cinema?
«I successivi lungometraggi di Malick (sono stati annunciati tre progetti) riveleranno forse cosa c’è oltre quel poetico sfaldamento della rappresentazione che ha dominato gli ultimi suoi due film: ovvero fino a che punto è possibile procedere negando la sintassi del cinema inteso in senso tradizionale per sostituirla con delle “regole” espressive nuove, ibride, personali, libere da condizionamenti e compromessi; ma non per questo prive di una loro interna coerenza. Incuriosisce, in particolare, il progetto del documentario Voyage of Time, che riconferma il tema della nascita dell’universo come ossessione intima e prediletta di Malick: a partire dal progetto mai realizzato Q (pensato negli anni Settanta), dove sembra che un minotauro addormentato nell’acqua sognasse la genesi dell’universo (da qui il titolo del mio libro), passando per The Tree of Life fino a Voyage of Time, questo macrotema sembra compiere – appunto – un viaggio nel tempo».
ARIANNA PAGLIARA
Il sogno del minotauro. Il cinema di Terrence Malick.
Historica, Cinema
pp. 204
€ 16,00
A cura di Leonardo Gregorio