REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
DIRETTORE RESPONSABILE MICHELE CASELLA
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UN SODALIZIO ANGLOAMERICANO
E così, due personalità decisive del panorama musicale e di quello delle immagini in movimento si incontrarono. Beck e Garth Jennings. Uno americano, ma con DNA europeo, l’altro inglese. Il primo è colui che registrò in una manciata di ore quello che sarebbe diventato, a distanza di qualche tempo e anche contro intenzioni e sensibilità dell’autore allora giovanissimo, un manifesto generazionale: Loser, una parola, una canzone, tutto un mondo in una hit.
E anche di più: «Dopo Loser» — ricorda infatti la rivista on line «Onda Rock» — «niente nel pop è più uguale a prima». Qui gli anni Novanta erano alla loro prima metà.
Il decennio stava invece volgendo al termine, correva l’anno 1999, quando il videomaker britannico fece di una scatola di latte con gambe e braccia un’icona, protagonista del videoclip di Coffee & TV per i Blur, uno dei più noti di sempre, mentre due anni dopo sarebbe arrivato Imitation Of Life per i R.E.M., da molti considerato una delle vette più alte raggiunte non solo dal regista ma dall’intero comparto music video.
La collaborazione tra i due avviene a più riprese negli anni Zero. Si tratta dei videoclip che Jennings gira per l’eclettico cantautore losangelino: i brani sono Lost Cause (due video diversi per lo stesso pezzo) e Lonesome Tears, entrambi dall’album Sea Change (2002), mentre più avanti ci sarà Hell Yes, da Guero (2005) — nell’anno, tra l’altro, in cui Jennings esordisce come regista cinematografico con Guida galattica per autostoppisti pescando nell’universo narrativo dello scrittore di culto Douglas Adams, scomparso pochi anni prima.
L’incontro tra la musica di Beck e le immagini di Garth è quello tra codici diversi ma al cui interno si intrecciano benissimo lessico, semantica e sensi. E allora, Lost Cause (la prima versione video), «una delle visioni più malinconiche della storia della videomusica», scrive Luca Pacilio, «in cui un fantoccio che ha il volto dell’artista (come ritratto nella copertina dell’album) precipita dall’alto dei cieli»; quelle cadute “in sospensione”, quelle trasformazioni ed esplosioni, quell’impatto in ralenti diventano sottotraccia mutata, anzi un mood cambiato di segno e prospettiva in quella sorta di immaginario lato B che è la seconda versione video della canzone.
Qui il cantante è in carne ed ossa suona con la sua band in studio, levita e torna a terra, ribaltando la traiettoria del pupazzo del precedente lavoro. Così, ancora, parallelismi robotici esprimono i video di Lonesome Tears e Hell Yes. Nel primo appare un piccolo, immobile robot bianco allevato da un Beck total white in una porzione di strada che è la sua casa. Un aspirapolvere, una macchina da scrivere, una pianta, un bicchiere di latte. Routine dalla quale Beck si allontana perdendosi dentro una città deserta, al contempo “vera” e “irreale”, come fuggita da un film di Wes Craven o John Carpenter. A quella fetta d’asfalto poi ritorna, accorgendosi però di aver perso tutto il suo piccolo mondo “all’aperto”. In Hell Yes i protagonisti sono quattro minirobot (androidi evoluti realizzati dalla Sony ma mai arrivati sul mercato) e si muovono sicuri come danzatori in una coreografia che sta tra l’antico bugaku giapponese e l’hip hop, su un palco per una platea entusiasta. Beck si esibisce con cappello in testa, suona chitarra e armonica, ma è soltanto un ologramma, uno sfondo, solo una parte — non la più importante — dello spettacolo.
Si parlerà di Beck al Loop Festival giovedì 12 novembre
con Mauro Zanda (Giornalista di RadioRai)
il sito: www.loopfestival.it
L'evento su Facebook
a cura di Leonardo Gregorio