REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
DIRETTORE RESPONSABILE MICHELE CASELLA
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INTERVISTA A GABRIELLA SIMONI, OSPITE DI L.INK FESTIVAL
In attesa del L.ink Festival conosciamo gli ospiti della
manifestazione: Gabriella Simoni, inviata speciale di Mediaset, sarà
presente il 21 ottobre a Lecce presso le Officine Cantelmo.
Uno, due, tre squilli e poi il suono di una voce che, senza
darti neppure il tempo di presentarti, riattacca chiedendo di richiamare tra 5
minuti.
Piccola pausa ed eccoci di nuovo al telefono. Inizia così
l’intervista a Gabriella Simoni, tra impegni vari
e la linea telefonica che va e viene.
L’argomento del dibattito
di mercoledì 21 ottobre a Lecce riguarda il binomio giornalismo-etica. Esiste
un’etica giornalistica universale?
Intanto bisogna fare una
separazione a monte tra chi crede che lo schieramento nel giornalismo sia
legittimo e chi pensa sia da evitare.
Partiamo dal presupposto che
ognuno di noi mette se stesso in quello che fa, quindi è difficile essere
oggettivi, proprio come per i medici è difficile essere infallibili. Però come
un medico tende all’infallibilità, un giornalista deve tendere all’obiettività.
Io sono contraria al giornalista schierato perché questo ci avvicina a quei
difetti che hanno portato la politica lontano dalla gente. La gente non sente
più i politici dalla sua parte, e se noi siamo schierati come i politici, o con i politici, alla fine non abbiamo più alcuna
credibilità. La gente ci deve sentire come dei difensori, noi siamo i loro
occhi in mezzo al mondo.
Secondo punto: la testimonianza.
Il valore del lavoro di un giornalista è quello di essere testimone e di
raccontare quello che vede. Se si perde questo valore si perde il senso del
nostro mestiere. L’etica secondo me viene da sé. È difficile che un Giornalista
– con la G maiuscola – che osserva e descrive la realtà, poi la racconti in
maniera differente. Diverso è invece se si lavora con un metodo pregiudiziale.
In questo caso è più facile che l’etica o non esista o sia un’etica personale e
quindi non universale. Di universale non c’è nulla, però esiste l’onestà
intellettuale. Esiste la deontologia professionale, esiste il fatto di
raccontare la realtà per quello che è, senza filtri.
La realtà è l’unico faro da
seguire.
Come inviata speciale che
ha toccato con mano l’orrore della guerra, qual è il modo migliore per poter raccontare
una notizia senza cadere nella spettacolarizzazione?
In una sola parola? Empatia.
Immedesimarsi in chi quelle cose le subisce quotidianamente e viverle insieme a
loro. Tutte queste domande presuppongono il fatto che oggi
quasi sempre si racconti qualcosa senza averlo vissuto. È questo il grande
discrimine attuale. C’è una differenza abissale tra chi è sul campo e chi sta
dietro una scrivania.
Toccare con mano la guerra a
Baghdad, passeggiare tra le strade di Scampia, girare il mondo e osservare con
i propri occhi, vivere in prima persona, questo è uno dei grandi vantaggi della
nuova generazione. Mentre nei giornali i budget si fanno sempre più risicati e
noi della vecchia guardia dobbiamo andare, vedere e raccontare, voi che non
avete ancora nessun legame, avete la possibilità di andare in un posto e
viverlo, starci il tempo che è necessario per capirlo e per poi raccontarlo
come si deve.
E al tempo stesso è
essenziale l’imparzialità. Mai schierarsi. Questa, credimi, è la cosa più
difficile per un giornalista. L’obbiettività non è un dono, è una meta. Un
punto a cui arrivare con molta fatica e molto impegno. Guarda sempre entrambe
le facce della medaglia, anche se ti crea una confusione pazzesca, tu fallo. E
vedrai che il tuo lavoro sarà sempre completo e chiaro.
Qual è l’evento che non
hai mai raccontato e che ha più segnato la tua esperienza sul campo?
Tanti, troppi. Non ho mai
raccontato fino in fondo alcuni eventi che mi sono capitati, perché onestamente
non credo nel protagonismo giornalistico. Non è rilevante ciò che capita a me,
ma solo ciò che è vitale ai fini della notizia,
e su questo sono molto rigida. Non ho mai raccontato, se non poco tempo fa, i
sentimenti dopo la morte di Ilaria Alpi. Non ho mai raccontato del linciaggio
che ho patito due anni fa in una piazza egiziana: un’aggressione di una
violenza inaudita. Sono rimasta nuda in una piazza piena di gente che mi
circondava armata di bastoni, mi picchiavano, mi tiravano i capelli, mi
toccavano. Ma al mondo ho semplicemente riferito di essere stata aggredita. Sì,
sono queste le parole che ho usato. Perché non sono state né ferita, né
violentata, né uccisa. Sono stata aggredita. Insomma tutto quello che capitava
a me, tutto quello che ho scampato, tutto quello che mi riguardava l’ho
raccontato molto poco e quel poco che vi è arrivato è passato o per bocca
altrui o perché era talmente evidente da non poterlo tenere nascosto.
In quanto ideatrice del
programma cult “Lucignolo” (che mostra uno spaccato di gioventù decadente e
ribelle), come interpreti i giovani di oggi?
Lucignolo è nato durante un
mio moto di rabbia nei confronti dei talk show, dove esperti da salotto
discutevano del comportamento giovanile. In quel momento pensai: «Ma insomma,
che lo dicessero i giovani cosa pensano». Lì si accese la lampadina. Poco dopo
mi occupai dei gapper, un gruppo
di ragazzi che derubavano i loro coetanei di oggetti status (orologi, cellulari
ecc.). Passai una notte a diretto contatto con la loro realtà, e mi resi conto
che quelli che sembravano i “cattivi” erano solo dei giovani senza prospettive,
delusi dalla durezza della vita, che nei weekend sfogavano la rabbia contro chi
stava meglio di loro. Così decisi di raccontare il mondo dei “lucignoli” o dei
presunti tali. Questo format in breve tempo divenne un marchio, poiché
descriveva cose pesanti con un linguaggio leggero. L’impatto fu così forte che,
per aumentare gli ascolti, i vertici pensarono di basarsi sui soliti cliché
inserendo contenuti più trasgressivi e decadenti abbinati a linguaggi leggeri.
Il risultato fu lo snaturamento definitivo del programma.
Io non credo che oggi siamo
di fronte a un mondo decaduto, anzi. La disubbidienza difficilmente appartiene
alle nuove leve. La trasgressione è data dalla noia della vecchiaia. I ragazzi,
invece, hanno sentimenti puliti, sempre. Le generazioni seguono un ciclo,
perciò sono convinta che il racconto giornalistico debba avere prima di tutto
la capacità di entrare nel tessuto delle cose che vuole raccontare e non
farsene dei preconcetti.
Se oggi facessi di nuovo
“Lucignolo” racconterei un mondo diviso metà. Un mondo che da una parte ormai
non si può più permettere la trasgressione, che ha ritrovato il gusto della
semplicità, e dall’altra un mondo fatto di preadolescenti troppo precoci, che
vivono consumandosi velocemente.
Quali sono, a tuo avviso,
le caratteristiche che non dovrebbero mai mancare ad un aspirante giornalista?
Curiosità, dubbio anche di
fronte alla più grande delle evidenze, voglia di capire, pazienza, passione,
caparbietà e voglia di non arrendersi, mai, mai, mai. Però una delle chiavi di
volta in questo mestiere è l’umiltà. Una volta tagliato un traguardo non
bisogna, in nessun caso, sentirsi arrivati. Al contrario, è lì che la vera
sfida inizia. Il trucco è lavorare duro. Quando ho cominciato la mia carriera,
una telecamera costava quanto un appartamento. Oggi, invece è molto più
semplice riuscire ad acquistarne una di ottima qualità e ad un prezzo davvero
abbordabile. Sicuramente questo è un vantaggio per le nuove generazioni, ma
sebbene ora ci sia la possibilità di raggiungere tutto con estrema facilità,
molti sono quelli che cadono nel baratro della presunzione, e questo è dovuto
principalmente alla mancanza di modelli da seguire. Mentre io davanti a me
avevo i grandi del giornalismo italiano come Giangiacomo Foà, Ettore Mo, Mimmo
Candito e i grandi inviati Rai, e non c’era alcun verso di montarsi la testa,
gli aspiranti giornalisti odierni, invece, si credono dio solo per aver messo
una firma in prima pagina.
Spesso bisogna avere la
decenza di stare in silenzio. Io sono stata zitta per anni prima di dire quello
che pensavo. Ricordo bene la prima volta in cui, durante una riunione, mi hanno
chiesto: «Gabri, tu che ne pensi?». Ero emozionatissima e lavoravo già da 15
anni come inviata. La verità è che oggi manca la gavetta. Ci vuole serietà, ci
vuole impegno, ci vuole conoscenza, ci vogliono contenuti e ci vogliono porte
in faccia, ma anche pacche sulla spalla. La soluzione è sempre nel mezzo.
Niente sciatteria, ma più modestia e voglia di osservare il mondo.
A cura di Graziana
Capurso
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