REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
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DALLA SCOZIA SHAKESPEARIANA ALL’ARCAICA BARBAGIA DI SERRA
Macbeth, la tragedia scozzese shakespeariana, è principalmente una storia di ambizione in cui un uomo valoroso e leale guidato dall’influenza di presenze più o meno malvagie – Lady Macbeth e le sorelle fatali – intraprende una sanguinaria ascesa verso un potere che lo condurrà alla sua stessa fine. Come avrebbe detto nel 1943 George Orwell, «Macbeth è l’unico dei drammi shakespeariani in cui il cattivo e l’eroe sono lo stesso personaggio […]. In Macbeth il delitto e la caduta sono una cosa sola; un uomo che non possiamo avvertire come del tutto malvagio compie azioni malvagie». In questa componente di “ordinarietà” risiede una delle caratteristiche pregnanti di questa tragedia: la facilità con cui un essere umano può rimanere intrappolato nella rete del male rende comune e attuale questa storia sanguinaria ambientata nel medioevo scozzese. Macbeth è un uomo che le circostanze hanno reso un assassino, il Barone di Glamis poi di Cawdor e infine Re di Scozia è un uomo ambizioso e questo suo sentimento umano, troppo umano, lo porterà a una rovinosa caduta.
La trasposizione anche linguistica – è importante ricordare che la lingua sarda è considerata a tutti gli effetti una lingua romanza e non un dialetto – è a cura di Giovanni Carroni e «…non limita la fruizione ma trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di restare letteratura. Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche. Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve», così ne parla lo stesso Serra che oltre alla regia firma scene, luci e costumi dello spettacolo. Una messa in scena disegnata su uno studio coreutico composito e coerente che alterna trovate comiche, slapstick in alcuni casi, con i personaggi delle sorelle fatali, a un taglio espressionista durante le uccisioni e le scene di violenza.
Macbeth di William Shakespeare è la tragedia dei valori virili, degli uomini e del sangue versato in un clima epico in cui regna il polemos; in questa tragedia le donne ci sono ma hanno caratteristiche mascoline e assumono un ruolo fondamentale, scatenante; di questo carattere oppositivo uomo/donna e di questa predisposizione a una costruzione dei fatti e un lessico epico il Macbetth di Serra sembra tenere fortemente conto.
Nel testo shakespeariano Re Duncan è insistentemente dotato di caratteristiche “femminili” al contrario Macduff, che ucciderà Macbeth, è “tanto poco «infettato» dall’elemento femminile da essere stato strappato al ventre materno con lo squarcio violento di un parto cesareo. È vero che sono le donne a mettere in moto gli sviluppi dell’azione ma si tratta di donne "innaturali” come sottolinea Guido Bulla, studioso e traduttore dell’opera di Shakespeare; le sorelle fatali e Lady Macbeth sono donne portatrici di elementi prettamente virili, caratteristiche della mascolinità guerriera che affonda le sue radici nella tradizione lirica, epica e tragica greca.
Tutti sappiamo che il teatro elisabettiano non portava sulla scena attrici di sesso femminile quindi ogni volta che immaginiamo le rappresentazioni di opere shakespeariane ricostruendole con un minimo di attendibilità storica e filologica a colpirci, con un comprensibile senso di straniamento, sono spesso le immagini di giovani attori nelle vesti delle varie Giulietta, Ofelia, Desdemona ma, riflettendo, Lady Macbeth non appartiene a quella categoria, è così innaturale vederla rappresentata da un uomo? Non si direbbe, almeno stando al Macbettu di Serra che porta in scena un cast tutto al maschile, una scelta che latisse sembra seguire una vocazione drammaturgica e registica precisa e non ha nulla a che vedere con delle velleità storiciste e filologiche dell’ultima ora. In scena Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino, Leonardo Tomasi; portatori di una fisicità cruda e concreta che riporta alle suggestioni filmiche di Padre padrone dei fratelli Taviani ma allo stesso tempo rievoca un’universalità arcaica che ricorda una delle trasposizioni cinematografiche più suggestive della tragedia scozzese: Il trono di sangue/Il castello della ragnatela di Akira Kurosawa.
Ne viene fuori un Macbeth lontano dalla sua ambientazione originaria eppure universale, che ascoltiamo con un’empatia viscerale in una delle sue battute più celebri: «La vita non è altro che un’ombra in cammino; un povero attore che s’agita e pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore e senza alcun significato».
A cura di Marilù Ursi